NASCONDINO


«Mi piacerebbe tanto un bel giorno riuscire a vivere facendo cose giuste invece di limitarmi a non fare quelle sbagliate»

Ho fatto un sogno l’altra notte, di cui ricordo poco, solo delle strade a me familiari, deserte, e il mio percorrerle. Ritrovarmi in una stanza mentre lentamente preparano del cibo color arancione, anche per me, su una piastra. Così lentamente che devo andar via prima che sia pronto, consapevolmente alterata che non mangerò per tutto il giorno.

E’ tutto quello che ricordo. So che c’è dell’altro, che il mio inconscio, subconscio e conscio hanno censurato. Lo so perché tutto il giorno sono stata pervasa da un’emozione non ben definibile, una specie di saudade, intensa, profonda, dolorosa. Così intensa, profonda e dolorosa da sentire ogni tanto il cuore e il respiro contrarsi con una fitta.
Me lo sono domandata tutto il giorno. Cosa mi nascondo?

Poi la frase di Chuck Palahniuk mi ha folgorato. Ecco vorrei quello, o meglio la mia versione di quella frase “Mi piacerebbe tanto un bel giorno riuscire a vivere invece di limitarmi a sopravvivere”.  Ho staccato dal giusto e non giusto, perché ormai i confini spesso non li vedo più.

Me lo domando anche oggi. Cosa mi nascondo?
Sono brava a farlo. Da bambina mi portarono a veder Bambi. Iniziai a piangere dalla morte della madre e alla vista di Bambi disperato, terminai circa un’ora dopo esser uscita dal cinema. O così mi raccontarono oltre trent’anni dopo, quando non capivo perché, guardano la cassetta appena comprata con mia figlia, sapevo cosa sarebbe accaduto subito dopo (per la cronaca ho rimosso ancora la trama del film, nonostante l’abbia rivisto, e ricordo solo ancora la scena in cui cominciai a piangere).

Ci sono dolori così intensi che sono insopportabili per l’esistenza. Non possiamo tenerli con noi. O loro o noi.
Se scegliamo di sopravvivere, teniamo noi e abbandoniamo i ricordi, o almeno crediamo. Loro ci seguono, finché non li affrontiamo e passiamo oltre.

Me lo domando anche in questo momento. Cosa mi nascondo?
Con cosa di me, delle mie emozioni, dei miei ricordi, sto giocando a nascondino?

VIVERE FINO ALL’ULTIMO SORSO


 

 

Che poi la vita è tutta lì.
Non è mezzo pieno o mezzo vuoto.
È solo berla, la vita, fino all’ultimo sorso.

 

 

 

Lo scrivevo un anno fa, una notte, al ritorno di un

“chiamoloaperitivochedireubriachiamocisuonamale”.

Lo penso anche oggi. Lo scriverei anche oggi.
Solo che certe cose più che pensarle e scriverle, bisognerebbe viverle, e a me non sembra di farlo.

Isabel mi scrive su wapp: “Sei molto attiva in questo periodo, fai un sacco di cose!”. Se mi osservo da lontano, come se io non fossi io, devo darle ragione, ma come è che allora a me non sembra di far nulla? Di vedermi scivolare questa vita senza un vero scopo, senza fare qualcosa che sia degno, che abbia la capacità, di dare un senso a chi sono io?

Sto invecchiando, e questo non è il problema, il problema e che mi sembra di farlo senza aver fatto quello che dovevo fare. Come se avessi sprecato, come se stessi sprecando, questo tempo datomi.

Forse per questo quest’anno ho lasciato passare in sordina il mio compleanno, nessun proclama, nessun brindisi, nessun “Ci sei alla mia festa di compleanno?”. Non perché non abbia nulla da festeggiare, ma perché di preciso non so cosa festeggiare.
L’ho lasciato talmente in sordina, che anche mio padre si è dimenticato di me quel giorno, lo scrivo come constatazione di quello che accade intorno a me, perché che lui si sia dimenticato non m’importa. Che si sia dimenticato Willy invece si.

Non mi lamento sia ben chiaro, so perfettamente di avere questa capacità, essere incoerente al quadrato nella stessa frazione di attimo in cui sono stata coerente. Una vignetta di Coma Empirico, mi dipinge perfettamente. Lotto per trovare un porto sicuro, e un minuto dopo scruto già l’orizzonte per cercare di uscirne.

Ma sto divagando parlavo di vivere fino all’ultimo sorso, di quei sorsi che non son fatti di alcol, troppo facili quelli, ma di sorsi intensità con quel retrogusto finale di serenità. Quei sorsi che ti lasciano la sensazione che hai tra le mani il vino migliore che potessi avere, e di questo sei felice, e te lo gusti, con la vista, il tatto e il palato, fino al successivo sorso.
Invece io tendo a vivere di parole, prima di arrivare all’agito, devo convincere le cinquecento me, delle mille me, che albergano nella mente. E, credetemi, non è impresa facile.

E con questo post lo ufficializziamo, siamo entrate (io e le mille me) in un periodo introspettivo (leggasi segaiola mentale). Però quelle chaussures con il tacco alto potrebbero essere il mio prossimo acquisto, vuoi mettere l’ingresso, il primo passo, nel periodo introspettivo con quelle scarpe?

ß


In principio era una B, poi dimagrì, fece il vitino e divenne una ß.
No, ho sbagliato.

In principio era una B, poi andò all’estero, in Germania, e divenne una ß.
No, ho sbagliato ancora.

In principio era una mamma e una figlia di pochi anni.
Essere mamma è stata una scelta, e se credete a quello che credo io, anche essere figlia di quella madre, lo era stato.

Ora immaginatevi, come un quadro, quella giovane mamma e quella figlia, con i capelli mossi, di pochi anni seduta in grembo, sul tavolo un quaderno e le matite.
La mamma scrive una parola nella parte alta del quaderno, B A N A N A, disegna una banana (diciamo ci prova), scrive una B enorme sotto il disegno e dice alla bimba, che ancora non frequenta la scuola: “Ora copia tu, uguale a quello che ho scritto io e ripeti… B di banana, quella lettera scritta grande è la B e con lei possiamo scrivere banana”.

La bimba dai capelli mossi quasi riccioli, guarda prima la mamma e poi il quaderno, si gira e con impegno scrive la sua B sul quaderno. Poi, seria, osserva la parola in alto e copia, piano piano, tutta la parola. La mamma guarda, sorride la stringe a se: “Ma che brava! Ti meriti dieci” e così dicendo scrive 10 su quella pagina. E così per ogni lettera dell’alfabeto, con voti che oscillano dal sette al dieci, perché altrimenti si perde lo stimolo al meglio di noi a dare solo dieci, ma comunque sempre voti che dicano “quanto sei brava”.

Alla fine era una figlia ormai adulta, con i capelli mossi che viveva a Berlino, e una mamma dai capelli rosa (che è un ottimo colore per coprire i bianchi) che viveva di fronte a un lago.

La figlia pronuncia parole in una lingua straniera attraverso facetime e dice alla mamma: “Ripeti come me”. Dopo che la mamma ha ripetuto, anche sbagliando, scrive su un quaderno la frase in tedesco appena detta e la mostra alla telecamera. La mamma trascrive le parole, le pronuncia ancora lentamente, la figlia dice: “Brava, ottimo inizio”.  I “brava” son diversi di volta in volta, perché altrimenti si perde lo stimolo al meglio di noi, ma comunque son sempre dei “brava” ad incoraggiare.

La vita è un immenso 8 rovesciato. A volte dai e a volte prendi, a volte insegni e a volte apprendi. Un continuo evolversi e crescere contemporaneamente.

So che qualcuno questa lettera: ß, la legge come una “bi” all’italiana, altri la leggono come “ss“, taluni come “sz“. Non so voi, ma io questa lettera la leggo come “amore“, l’unione di due, che diventa uno.

PAURE


Io faccio fatica ai cambiamenti.
Per pigrizia.
O almeno così me la conto.
O meglio ancora, la maggior parte delle volte è pigrizia, ma a volte è paura.

Paura inconscia, subdola per certi versi. Essa sa, ovvero io so, che se mi scopro una paura, prima o poi farò in modo di vincerla.

Vincere una paura vuol dire affrontarsi e non sapere cosa troverai di te.

Perché dico ciò? Perché quando la vedo negli altri fare il gioco del nascondino, mi ricordo della mia.

DENTI


A volte scegliamo il male minore, ma sempre male rimane.
Averti dovuto lasciare questo è stato.

Ti ho sognato ancora, quei sogni in cui faccio fatica a capire se son sogni, una vita parallela o un tempo antico o futuro. Credevo non sarebbe più accaduto. Era passato tanto tempo dall’ultima volta.

Ti ho sognato, non mi avvicinavo timorosa di darti fastidio, ma tu mi hai chiamato. Così vicini e così lontani.
Tra noi lo stesso sguardo di quel giorno, foglie secche e fuoco.
Nella casa sul mare della mia linea genetica femminile.
Mi hai chiesto di me, di me dopo te, di chi ci fosse stato.
Il mio silenzio e i miei pensieri. Il mio dirti: “Ci ho provato, si qualcuno, qualcosa, ma non è stato possibile, poi ho smesso perché….”, la folle paura di dirtelo, ma dirtelo lo stesso, “…ti amo ancora”.

E’ il dirtelo nel sogno mi fa esplodere il cuore, torni tu e questo struggimento che non solo rasenta il dolore, ma lo travalica e lo porta con sé. Tanto da non capire più la differenza tra piacere e dolore. Fino a che il dolore della tua mancanza prende sopravvento e mi sveglio con quell’intensa sensazione che, so già, mi porterò fino a sera.

Nel sogno mi hai colto la vita, ed io mi vergognavo del mio aspetto così diverso da allora, mi hai stretto, un bacio leggero sul collo, eccola lì quella mia carnalità, che rimane nascosta, del resto come te o forse insieme a te, in qualche angolo di me.

Tutto lì, un bacio leggero, tutto lì a ricordarmi di come la carne fosse intrecciata indissolubilmente all’energia impalpabile che noi eravamo.

Occupi uno spazio che in questa vita non ti appartiene più. Ed io ci provo, ti comprimo, ti spingo in fondo, dove non scendo mai neppure io, in modo da creare spazio. Spazio che tu recuperi tranquillamente quando entriamo insieme nel mondo di Morfeo.

Non so se tu sia solo un’illusione d’amore, le donne sono brave in questo, ed io nel mondo della creazione son maestra. O che tu sia davvero quell’anima che di vita in vita ritrovo, quell’anima gemella*, con cui ho fatto un patto in un altro mondo e in un altro tempo. So solo che nonostante i miei tentativi, gli anni che passano, io mi ritrovo ancora a scrivere di te.

Ora di sera passerà tutto, sorriderò storcendo il labbro destro, osserverò con ironia queste parole scritte; ora di sera dirò che sono sciocca, che credo ai sogni, che nulla esiste, che noi non siamo mai esistiti, che son solo proiezioni, ma ora ho quel “ti amo ancora” che preme sui denti per uscire.
Del resto i denti con te ho dovuto usarli, per difendermi dai tuoi, e recidere noi.

Quando qualcosa viene unito, resta sempre collegato, a prescindere dall’esistenza di un legame fisico.
(Greg Braden)

*Se voi pensate che le anime gemelle siano un porto sicuro, un mare calmo e tiepido che avvolge e fa star bene, errate. Le anime gemelle sono qualcosa di diverso, un patto antico, qualcosa che scuote le vostre fondamenta, è un uragano che stravolge e cambia, uno scambio di lezioni. Spesso dopo averlo fatto, vanno oltre, fino alla prossima volta, fino a che ogni debito e credito karmico tra loro, sarà risolto.
Se cercate il porto sicuro e il mare tiepido, voi state cercando un compagno d’anima in questa vita, che non è né meglio né peggio, è solo diverso.
Io in questo momento non cerco più nulla.

FAME


Sono in un periodo di “espansione del corpo introversione dell’anima”, mi succede sempre quando stento a trovare un equilibrio, quando mi cerco e non mi trovo. Si amplifica la sensibilità e l’empatia con i senza pelle è a mille.

Mi percepisco.
L’anima tende a ritirarsi, si rannicchia profondamente, questo porta il mio corpo ad occupare spazio fuori, quasi a volerla trascinare alla luce a cui è destinata, ed invece ottengo l’effetto opposto.

So che vi sono persone che funzionano diversamente. Hanno l’anima sprofondata che attira il corpo dentro.
Si consumano la carne, i tendini, il corpo, arrivano alle ossa alla ricerca di Se. Si assottigliano, quasi a scomparire perché il corpo senz’anima non ha motivo di essere.

La mia anima no. Sbraita confusa e confonde il cibo per amore.

Come un bambino, che guarda i grandi dal suo mondo, io guardo a questo pianeta. Non ho risposte, solo moltitudini di “Perché?” inevasi.

GENERE FEMMINILE


Son diventata genere femminile che odia stucchevolezze, diabeterie varie, forzati sorrisi con tonsille esposte, i “cici e cicia” multiformi.
Eppure son rimasta romantica.

Son diventata genere femminile sostantivo con molteplici aggettivi, questo confonde, questo mi confonde.
Eppure ho chiarezza interiore.

Son diventata genere femminile, confuso, profuso, perso, disperso, lamento pezzi di me, mi manco all’origine.
Eppure sono integra.

Son diventata genere femminile che usa il suo maschile, lo porta in superficie, lo usa e a volte ne abusa.
Eppure maschile non sono.

Son diventata genere femminile che usa parte di se a scudo e quindi conserva ciò che dovrebbe lasciare andare.
Eppure sono leggera.

Son diventata genere femminile, in un mondo binario due, inevitabile lo so, scegliere è il compito.
Eppure io anelo a uno.

SILENTE UTOPIA


Sono stata piccola bimba laconica, che non vedi mai, e ancora meno senti.
Sono stata bambina con gli occhi bassi vestita di silenzio.
Sono stata adolescente introversa, pieni di sogni e mutismo.
Sono stata giovane donna intrisa d’amore e silenzi.

Il silenzio è stato madre avvolgente che mi ha nutrito e dotata di parola e intelletto. Nel silenzio ho sviluppo me, pensieri e ragionamenti. Nella tiepida assenza del rumore delle mie parole, mi son permessa di crescere come psiche e anima. In quel vuoto di rumori la mia voce ha iniziato la sua crescita fino ad oggi, in cui la vita è il mio palcoscenico e cavalco il proscenio con voce sicura, anche quando tanto sicura non sono.

Oggi sono una donna con voce certa e passo a volte incerto.

Dicono sia piena di utopie, ed io rispondo loro che le utopie son i semi dei sogni, e i sogni son i germogli della realtà.

SEMI


Quella che voi non vedete è neve che cade dal cielo.

Quelli che voi non vedete, sono i fiocchi di neve che domenica sera ho fotografato. Più e più volte. Il risultato è sempre stato lo stesso. Questo.

Vi assicuro che a vederlo dal “vivo” c’era la notte, i fiocchi bianchi che scendevano e le luci notturne della città come stelle lontane, immerse nelle nuvole basse. Eppure.

Eppure per quanto mi son sforzata, l’Iphone mi rimandava questo. Mi son rassegnata, ho guardato la foto e mi son detta “Ha il suo perché anche così” e l’ho conservata.

Stamattina quando ero nel mio pensatoio, in quei dieci minuti in cui viaggio tra casa e lavoro, ho pensato a quell’immagine.  Ho pensato, per analogia, a cosa rappresenta nella mia vita quella foto.

Mi accade con le persone. Io le guardo e “vedo”. Vedo un sacco di cose. Poi la foto chiamata “vita” mi rimanda un’altra immagine. Ed io ci riprovo a “fotografare” ancora e ancora, ma niente. L’immagine che mi rimanda è diversa da quello che io vedo.

Non sto dicendo più bello meno bello, più brutto meno brutto. Sto dicendo diverso.

Mi son domandata se ho coltri d’illusioni, di speranze, di realtà distorte personali che non mi fanno vedere quello che” l’Iphone vita” fotografa.
Mi son chiesta se ho dei bisogni che mi tengono prigioniera e non mi permettono di vedere le cose, le persone, per quello che sono.
Ho forse paura di questa realtà, nella sua interezza, perché la percepisco dolorosa per la mia carne, lontana da ciò che sono?

Poi mi son risposta. Nella mia limitata capacità di vedere la verità, cercandola comunque, alla fine uno spicchio io lo intravedo. Io vedo i semi delle persone. Le persone sono piene di “sè”mi.

Semi cui sceglieranno di dare spazio oppure no, che nutriranno oppure no, a cui daranno energia oppure no. Semi che nasceranno o che moriranno nel provarci. Semi destinati a esser fiori profumati o querce. Tutto ciò a seconda delle scelte che ognuno fa, farà, nella propria vita, se seguirà “se” o seguirà altro.

Ed io alcuni semi li vedo. Vedo ciò che potrebbero essere, se lo volessero, ma che non sono (ancora, o forse mai). Guardo loro, vedo i semi, poi però (a volte) la foto “vita” mi rimanda altro. Mi rimanda quello che loro hanno scelto di essere, ma anche di non essere, tra i mille semi che avevano a disposizione.

Sappiatelo è un casino. M’innamoro di “sémi” che (forse) mai nasceranno.

FLUIDA


I miei pensieri volano come rondini ai primi freddi. Cercano posti caldi dove adagiarsi e riprodursi.

Tengo stretto a me il cuore. Non per avarizia, non per paura, ma nella ricerca di chi lo tiene allo stesso modo, in attesa di donarlo a me.

Emozioni come gatti acciambellati accanto al fuoco del camino. Aspettano di sciogliersi con il calore.

Sospiro a riempire l’aria di me.

Mi ascolto il petto nel mio librarmi, cadere, per poi riprovare ancora il volo.

Chiudo leggeri gli occhi a vedere, dietro le palpebre, le immagini dei miei sogni fatti colore.

Le mille me si siedono ai bordi del fiume, muovono le dita dei piedi nell’acqua, a percepire il suo parlare tra vibrazioni e carezze. Divento fluida insieme a lui.

Io sono anche questo.