ACCANTONO


Due parole in chat con Progenie di mattina presto. Tra un come stai e un come stai tu, tra un cosa fai e come sta Pecetta, è sbucato il discorso sulla serietà. La mia. Da qui questo post.

Sinceramente io mi vedo meno seria di quello che gli altri vedono.
Probabilmente sono io che non vedo come mi vedono.

Concordo sul fatto che l’usare parole come “responsabilità” e “verità” (la ricerca, io ancora non la posseggo) mi fa apparire seria e rompiballe (sospetto più quest’ultima). Eppure io son meno seria di quello che sembro, solo che, come molte altre persone, vivo con un tipo di sensibilità sottopelle. Quella che a qualcuno fa dire che son “esagerata”. Mentre a me fa vivere con la presenza costante, inconsapevole, di “emozioni”.

“Emozioni” che negli anni si sono sommate. Qualcosa, ogni tanto, le riporta in superficie, come stamattina appena finito il discorso con Progenie. Facebook mi ricorda un mio vecchio post (se clicchi sulla foto ti ci porto, se non ti interessa vai sotto la foto).

Anno dopo anno, ascolto dopo ascolto, la crudeltà umana mi appare sotto forma del massacro di Sabra e Shatila eseguito da chi alle spalle aveva subito i massacri dei campi come Auschwitz. Mi rammento i Gulag e i campi di concentramento Serbi come quello di Omarska. Ricordo i campi di “educazione” cambogiani degli anni 70 e gli attuali campi di detenzione libici, di cui l’europa è socio di capitale.

Ho un bimbo di tre anni nel cuore, il suo nome è Aylan, morto affogato nel mare, cercando di scappare dalla violenza. Nel muscolo cardiaco, insieme, tutti quelli morti dopo lui, senza nome, anche pochi giorni fa.

Potrei parlarvi del genocidio degli Aborigeni in Australia e perché non ricordare cosa è stato fatto agli Indiani d’america?
Ecco perché sembro seria. Non so voi, queste cose vivono costantemente con me. Anche quando rido e scherzo, anche quando non ne sono consapevole, anche quando faccio la cogliona e all’ennesimo bicchiere di rosso divento una buffona.

Io non dimentico. Accantono solo per un pò.

(click sulla scritta)

PIUTTOSTO CHE NIENTE, MEGLIO PIUTTOSTO


Mai come in questo momento il mio progetto personale fare ha un senso.
Mai come ora, so che c’è bisogno di ogni goccia di aiuto in questo mare di sangue e dolore. Non c’è solo Aleppo ne sono consapevole, ma in questo momento l’urlo che arriva più forte a me, è questo.

aleppo1

Ho letto un articolo in cui spiegavano “cinque cose che puoi fare” da qui, anche se non sei un potente, anche se non sei nessuno, anche se sei solo una goccia in un mare immeso. Persone normali, come noi insomma. Un paio le ho messe in pratica subito.

Una è firmare una petizione e fare pressione sulle forze politiche. Ho iniziato a farlo tramite AMNESTY INTERNATIONAL.

L’altrà è fare una donazione a un’organizzazione umanitaria, ed allora, il mio piccolo contributo mensile per le Anime Umane ancora una volta è per MEDICI SENZA FRONTIERE .

Me ne rendo conto, è poco, pochissimo, ma piuttosto che niente….

Infine ricordo che con me porto sempre il pensiero delle Anime di Animali e un micro aiuto lo mando anche chi in prima persona dà molto:
Andrea Cisternino, il codice IBAN IT02O010300166100000139677 per aiutarlo.

ALEPPO


Se fossi Dio, io non ci perdonerei.
Se fossi Dio, ridarei la terra ai dinosauri.
Se fossi Dio, depennerei la razza umana dal pianeta.
(Senza dolore o sofferenza, solo un soffio divino a spazzarla via).

Non impariamo dai nostri errori, non ci eleviamo, strisciamo nelle nostre feci e ridiamo gaudenti di ciò.

Scrivo questo post, comprimendo dolore e lacrime, per non farmi vedere, per non sentirmi dire il solito “Sei troppo sensibile”. Non sono troppo sensibile. Ho solo un’anima. Mi domando come, si possa non sentire il dolore altrui, così tanto, nella propria carne.

Io di quella guerra non ho capito niente, non ho capito dove stavano i “buoni” e dove i “cattivi”. Non ho capito chi era seduto tra i “giusti” e chi tra gli “sbagliati”. Ho provato a cercare di capire, ho provato ad informarmi. Niente, non capisco, non capisco, non capisco.
Sento solo il dolore lacerante della gente, dei bambini, dei civili. Del resto cosa vuoi capire della guerra, non esiste mai un “buono” nella guerra, non esiste mai un “giusto” nella guerra.

E mentre scrivo questo dolore di sottofondo.
Oh non son migliore di nessuno, credetemi non mi reputo tra i “giusti”. Son come la maggior parte di tutti noi, una lacrimuccia, un parlare, poi una battuta a stemperare, un sorriso e un cazzeggio e si va oltre.
Ci si pensa fortunati a esser qui e non là, e si continua a vivere.

Mi rimane dentro questo dolore di sottofondo, fisico, persistente, continuo.
Meno male che non son un Dio, perché sarei il dio del vecchio testamento.

war

Fonte: Il Fatto Quotidiano
«Ma secondo l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Al Hussein, che ha esortato il mondo ad ascoltare “il pianto delle donne e dei bambini terrorizzati e macellati ad Aleppo”, molti civili che erano riusciti a fuggire sono “stati catturati e uccisi sul posto” ed altri ancora arrestati dai governativi siriani. I soldati “entrano nelle abitazioni e uccidono chiunque si trovi all’interno, anche donne e bambini»

«Onu: “Strage di bambini, è carneficina”»

Fonte: La Stampa
«L’Agenzia per i Diritti umani, ha riferito di resoconti credibili «su 82 civili freddati» in quattro diverse zone della città, in una «totale mancanza di umanità ad Aleppo»

«L’Unicef lancia un altro allarme. Un medico ha riferito di molti bambini soli, probabilmente più di 100, «intrappolati in un edificio, sotto pesanti attacchi e bombardamenti». Amnesty International ha lanciato un appello per l’apertura di corridoi umanitari per portare aiuto, e l’invio di «osservatori indipendenti»

Fonte: Repubblica
«L’Onu denuncia che decine di civili sono stati trucidati dalla forze lealiste che hanno riconquistato la città, mentre i ribelli parlano di “stop all’evacuazione dei civili da parte delle forze sciite, per motivi non chiari”»

Non vi posto i messaggi e i video di addio delle persone di Aleppo di ieri e stanotte. Video che hanno postato su twitter o facebook. Se volete potete cercarli in rete, non ho più cuore nel vederli, sentire e leggere. Mi sale, prepotente quel senso d’impotenza per cui… meno male che non son un Dio, perché sarei il dio del vecchio testamento.

NON IN MIO NOME


Quando ero piccola, guardavo film in bianco e nero, parlavano dei campi di concentramento nazisti, di uomini che soffrivano e di uomini che torturavano.
E io mi domandavo perché? Come può essere accaduto? Rimanevo in silenzio davanti a quelle immagini e pensavo meno male non accadrà mai più.

Quando ero piccola, ma un po’ di meno, il film era a colori, “Urla del silenzio”, sempre campi di concentramento ma in Cambogia, gli uomini soffrivano ancora e altri uomini stupidi uccidevano. Io sentivo dolore, profondo, intenso che risaliva fino al respiro trasformandosi in rabbia attraverso le domande. Perché? Come può essere ancora accaduto? Nessuno li ferma? Come possono gli uomini far questo? Forse non sanno di quello che hanno fatto i nazisti, non sanno che non porta a niente E nel buio del mio letto stemperavo rabbia e lacrime insieme. (Chi l’ha detto che l’empatia è sempre una bella cosa?)

Quando ero piccola, ma molto molto meno, non guardavo un film ma sfogliando una rivista, rimasi bloccata. Vedevo le foto delle persone dei campi di concentramento nazisti, uguali identiche, ma a colori. Come era possibile? La scritta “Campi di concentramento serbi in Bosnia” sotto le foto fu un colpo allo stomaco. Perché? Ancora?! Come era possibile? Come poteva ripetersi questo in europa mentre la cicatrice degli orrori nazisti era ancora pulsante? Come potevano ripetersi le stesse ferite in europa? Incredulità e rabbia, profonda. Come è possibile, che accada ancora?

E oggi vedo Aleppo, la Siria (ma in mezzo c’è un universo di guerre e dolori) e mi domando ancora “Ma come è possibile, come possono farlo, a che pro, secoli di guerra di sangue e di morte non insegnano niente”. I campi di concentramento non li vedo (ma so che ci sono) in compenso vedo i bombardamenti e sotto loro le persone, uomini, donne, bambini, animali, essere viventi come me.
COME CAZZO E’ POSSIBILE?! Io non mi capacito, non riesco, ci provo a dirmi è la natura umana, ma non riesco a crederci.

Perché, no, non è la natura umana, è una scelta di ogni singolo uomo.
Caino o Abele.
Abbiamo tutti nel dna i filamenti di entrambi, ma la scelta di chi essere è nostra. Io so di esser Caino, a volte sale prepotente, credo anche di esser capace di uccidere se costretta in alcune circostante, ma scelgo ogni volta di esser Abele.

Quindi no, sappiatelo voi che dirigete il mondo, spostando uomini e armamenti sulla carta, pensando che quella sbavatura sul foglio sia inchiostro e non sangue, voi non mi rappresentate.

Vittime che diventano carnefici e carnefici che diventano vittime, in una ruota perversa di dolore.

Quello che hanno fatto, quello che fanno, quello che faranno, sappiatelo NON è IN MIO NOME.

yesod by peter mohrbacher

Sarà un viaggio senza ritorno
Con un biglietto di sola andata
Ci sta chiamando la propaganda
Non in mio nome, non in mio nome.

Non ha insegnato il dolore
Più di una guerra mondiale
Non sarò io a farli andare
Non in mio nome, non in mio nome.

Contro un presunto nemico
Di civiltà e religione
Bocca che beve petrolio
Non in mio nome, non in mio nome.

Vogliono fare una nuova guerra
E noi dovremmo partire
Come animali al macello
Non in mio nome, non in mio nome.

Non certo in nome di mio fratello
Cuore migrante a lavorare
Nemmeno in nome di mio padre
Che mi ha insegnato a rispettare
Neanche in nome di mio nonno
Che dalle bombe dovette scappare
Perché mio figlio guarda sempre avanti
E noi avanti vogliamo andare.

Perché il mercato e l’economia
Contano più delle persone
Per i dollari e l’oro nero
Non in mio nome, non in mio nome.

Non partiranno i governanti
Né Sua Eccellenza, né il Parlamento
Ci manderanno giovani in armi
Non in mio nome, non in mio nome.

Non certo in nome dei bambini
Che vogliono solo giocare
Nemmeno in nome del vostro Dio
Che si è perso e non sa tornare
Neanche in nome dei soldati
Che la paura li fa tremare
Perché non sono pronto alla morte
Non ho bandiere da insanguinare.

Non in mio nome, non in mio nome…

Ma ti ricordi i fiori nei campi
Là dove un giorno cadevi in battaglia
Restano solo fiori tagliati
E un mare rosso impastato alla terra.

Il presidente sta vomitando
La sua bugia sulla nazione
Io non rispondo alla chiamata
Non in mio nome, non in mio nome.

Non in mio nome, non in mio nome…

(“Casa del vento” credits)

CASTELLI DORATI


Viviamo nei nostri castelli dorati e non degniamo di uno sguardo quello che accade fuori le mura, convinti che tutto passerà e noi saremo salvi. Non capendo che fuori le mura sono a milioni, solo spingendo le abbatteranno.
siria

LA NUOVA OSSEZIA


OSSEZIA

Malsane anime
spengono grida di bimbi.
Lacrime di sangue.

 

Tre righe buttate giù d’impeto nel settembre 2004, quando lessi di quello che accade in Ossezia, durante la strage di Beslan.

Tre righe che mi ritornano in mente in questi giorni, con quello che accade lontano da qua, ma così estremamente vicino, poiché siamo un tutt’uno. Uomini con gli stessi geni, uno contro l’altro, in una striscia di terra.

Il bombardamento di un orfanotrofio deve aver fatto scattare nella mia mente il collegamento con quello accaduto dieci anni prima in Ossezia. No, non mi meraviglio di ciò che è accaduto ieri e di quello che accade oggi. Non esiste guerra pulita, non c’è una guerra eticamente corretta. La guerra è sporca, scorretta, non ci sono regole, è sangue e merda.
Chi vi dice il contrario vi mente sapendo di farlo.
 alt=

Sento il sangue scorrere sulla pelle, scivola e imbratta, ma faccio altro. Mi distraggo, sparo scemenze, rido e guardo altrove. Poi appena tolgo la concentrazione dal non pensarci, la mente si riempie di foto che raccontano una tragedia, da volti deturpati da smorfie di dolore, visi pieni di lacrime, polvere e sangue.

Volgo lo sguardo altrove, penso che posso far io, e mi rispondo con un nulla. Non sono migliore di nessuno lo so, scriverci un post sopra non mi rende tale, avvertire il dolore altrui non evita a chi lo prova di star male. La consapevolezza di avere anche io Caino che scorre nel sangue, di esser capace a mia volta di uccidere, mi lascia la sensazione che quel sangue mi scivoli sulla pelle.

Negli anni hanno provato dirmi che il nemico, il cattivo era sempre quello di fronte e troppo spesso mi son accorta di averlo al fianco. I popoli non si suddividono in razze, in bianchi, neri, gialli o rossi e neppure si frammentano in italiani, americani, palestinesi o israeliani o si segmentano in credo religioso. I popoli si suddividono in persone che coltivano l’anima e persone che non lo fanno.

Non fatemi dei distinguo di sangue, di popolo, di ragazzi, di bimbi, di uomini, di torto o ragione. Non esiste ragione in questi casi. Solo follia.

WE ARE THE NOT DEAD


Non so neppure come ci son capitata, per caso come sempre nelle cose che mi colpiscono.  Scopro così un esperimento fotografico, più precisamente l’idea del fotografo Lalage Snow di imprimere nella “pellicola digitale” i volti degli uomini prima di partire per la guerra e dopo otto mesi di conflitto. Attraverso le sue foto, il linguaggio non verbale, dice molto di più di mille parole. Il suo progetto si chiama ” We are the not dead”, se cliccate sulla foto qua sotto, vi porta al suo sito, le foto rappresentano prima, durante e dopo la guerra.

Io ho solo pensato che siamo pagine su cui la vita scrive e sui nostri volti leggiamo la storia che ci accompagna.

MATITE SPEZZATE


Non so di preciso cosa stia accadendo in Argentina in questi giorni, ma QUALCOSA STA ACCADENDO, nel silenzio europeo e non europeo.

Sto parlando di una nazione che potremmo quasi dire italiana per il numero di emigranti che vi andarono. Sto parlando di una nazione fino al 1930 un baluardo di prosperità. Sto scrivendo di uno stato che ha fatto pagare al suo popolo, dopo tale periodo prospero, un prezzo di sangue e dolore che ha lasciato solchi indelebili. Non so quanti di voi sappiano o si ricordino della “notte delle matite spezzate” e dei “desaparesidos”, da lì in poi l’argentina annaspa, barcolla e oscilla, tra crisi economiche e crisi di democrazia.

Sto cercando di comprendere cosa accade in questi giorni, tra scontri, morti, feriti, arresti e saccheggi. Ma ancora di più sto cercando di capire perché un popolo che solo pochi anni fa ha intriso il terreno del proprio sangue, dividendosi in due fazioni, lo stia per rifare. Perchè questo sta accadendo, si stanno dividendo in due grosse fazioni “a favore di” e “contro”. Apparentemente lo stanno facendo con un’acrimonia, con un odio uno verso l’altro, fratello contro fratello, che spesso mi fa dubitare che gli uomini posseggano cuore e intelletto.

Nel mentre faccio questo, poiché ho bisogno di qualche giorno per raccogliere qualche notizia, vi lascio la testimonianza di una mia amica, anzi di un pezzettino del mio cuore, che ha visto, anni fa, quelle matite spezzarsi davanti ai suoi occhi. Ne è stata testimone, e guarda insieme a me all’argentina di oggi, con la paura di chi ha già percorso alcune strade.
Largen. Lei è argentina, anche se vive in Italia da anni, è un cuore pulsante e generoso, questo è il suo scritto di qualche anno fa, che non ha mai postato e ha “donato” ai tempi a me da leggere in privato. Oggi con il suo permesso lo riporto qua sotto, modificandolo il meno possibile, poichè ho il timore di togliere quello che lei ha “messo” dentro. SE STESSA.

L’odio tra gli uomini porta a questo, non dimenticatelo.

“Tante volte penso che sarebbe stato meglio se io fossi stata più piccola, non avrei capito,  sarebbe stato anche meglio se fossi stata meno curiosa.  Ma lo ero, volevo sempre sapere e conoscere tutto. Ma avevo 13 anni, quasi 14, e capivo tante cose e la curiosità faceva parte di me.

Mio fratello Norbert era un idolo per me. Era un genio, un ragazzo intelligente, brillante. Raggiunta la maturità, Norbert si iscrisse all’università in un’altra provincia. Da noi la famiglia si “disperde” presto. Si cresce prima se si esce di casa, questo è un pensiero e un modo di vivere molto argentino.

Una notte fui svegliata da uno che mi afferrava per i capelli e mi tirava giù a forza dal letto. Era uno della “polizia speciale” del paese. Era un paese molto piccolo e tutti sapevamo chi erano quelli della “polizia speciale”.  Ci si incontrava e ci salutavamo con la mano alzata e un bel “chau” ogni volta che ci si vedeva. Quella sera fu diverso, niente “chau”, niente mano alzata. Entrò senza invito e casa nostra divenne il suo lavoro. Credo che quella notte svegliarono anche tutti gli altri nello stesso modo.  Rovistarono casa, da cima a fondo. Trovai la biblioteca rovesciata con tutti i libri per terra. Chissà cosa pensavano di trovare.

Mio fratello era impegnato in politica. Faceva parte di un gruppo giovanile della chiesa, creato da un prete del quale non ricordo il nome e che un giorno “scomparve” entrando a far parte dei 30 mila desaparecidos. Si riunivano, il prete e i ragazzi, nel giardino di casa e io li ascoltavo, curiosa, nascosta dietro una finestra, senza farmi vedere perché ero piccola e non potevo partecipare. Mi sembravano tutti tosti, sempre incazzati neri, ribelli. Grandi.

Di quella notte non ricordo più nulla.

La nostra fortuna è stata quella di vivere in un piccolo paese, certe cose erano troppo eclatanti, non era conveniente farle. A Buenos Aires invece, se ti spariva un vicino di casa, non lo notavi, perché neppure lo conoscevi. In seguito scoprii che lo svegliarci nel cuore della notte ebbe inizio poco dopo che mio fratello Norbert fu incarcerato.
Non so se Norbert fosse un sovversivo, anche se in quel periodo qualunque cosa poteva essere considerata sovversiva. Quello che so è che lui stava cercando di far riaprire la mensa dell’università, che era stata chiusa. Quando si è giovani ed anticonformisti questo è il minimo che si può chiedere ad un’università: riaprire una mensa. Lui girava con un amico in motorino intorno all’edificio dell’università facendo esplodere dei mortaretti. Questo è quello che so. Credo sia quello che sia veramente accaduto poichè dopo 6 mesi di carcere fu dichiarato ufficialmente libero ma trattenuto comunque.  A quel tempo, la prassi era quella: tenerli là dentro, per rinfrescargli le idee, magari per cambiargli le idee. Con metodi molto “innovativi”!

Non so né in che modo, né come, ma la mamma riuscì a scoprire che l’avevano portato a Santa Fe.  Appena fu possibile lei andò a trovarlo. Mio padre no, lui non aveva il cuore adatto per andarci. Mamma partì, carica di cose e accompagnata dal suo nervoso masticare a vuoto.
Conservo ancora l’immagine di mia madre che parte e del suo prepararsi. Raccoglieva i libri per Norbert dai suoi ex professori delle medie.
In qualche modo eravamo contenti che non fosse finito nel carcere di Coronda perché già si sapevamo che da lì non uscivano vivi o in alternativa ne uscivano pazzi.

La mamma un giorno partì. Arrivò alla prigione e si trovò con un cartello appeso alla porta del carcere che riportava: “Tutti i detenuti dal Poder Ejecutivo Nacional sono stati trasferiti a Resistencia, nel Chaco”. Nord Est dell’Argentina. Non so quanti chilometri fossero da casa, ricordo solo le 14 ore di treno, dopo le 3 di autobus. Perché la prima volta a Resistencia ci andai anch’io, con lei.

Era il 1978, c’erano i mondiali di calcio da noi. Una buffonata internazionale, una vergogna, ce l’hanno anche fatto vincere.

Avevamo la possibilità di vederlo 3 giorni alla settimana. Mezz’ora al giorno. Troppa grazia, ma la parte infantile che restava in me era contenta di fare un viaggio con la mamma. Non sapevo ancora che sarei diventata grande in un attimo.

Era giugno, iniziava l’inverno, e nel Chaco la pioggia. Infatti arrivammo e c’era il diluvio. Restammo in albergo e la mattina dopo, molto presto, andammo verso il carcere. Un fortino. Enorme, imponente. L’acqua ci arrivava praticamente alle ginocchia, centinaia di persone in fila come noi, con scatole, valigie e quant’altro, cercando di reggerle nel miglior modo possibile per non farle bagnare.
Arrivò il nostro turno.  Ci controllarono come se non avessimo niente addosso. La poliziotta che si occupò di me fece bene il suo lavoro: non ricordo una parte del mio corpo dove lei non abbia messo le mani. Credo che anche a mamma avranno fatto la stessa cosa, ma non guardai.
Ci fecero entrare per dei lunghi corridoi, fino ad una stanza, come quelle che avete visto nei film.  I carcerati erano dietro ai vetri,  i visitatori dall’altra parte, dei sedili erano posti lì in modo da potersi sedere e parlare. Con mia madre decidemmo di usare quella mezz’ora di visita a metà, i primi quindici minuti entrai io.

Norbert era un ragazzone robusto con tanti di quei capelli in testa da fare invidia. Un bel faccione rotondo con un sorriso sempre accesso. Quella era l’ultima immagine che avevo di lui. Quando entrai, lui era già lì ma non lo vidi immediatamente perché era dalla parte laterale, dovetti fare il giro. Una volta arrivata di fronte lo vidi finalmente e mi trovai dinnanzi ad un ragazzo magrissimo, quasi senza denti e praticamente calvo. Non riuscì a fare altro che scoppiare a piangere. Non riuscivo neppure a sedermi. Lui mi sorrise e dal tubo di acciaio, che serviva per comunicare, sentii la sua voce (quella che ancora non erano riusciti a toglierli) che con calma,  mi diceva: “Dai gringa, va tutto bene, su, guardami, parlami.” Non so con quali forze riuscii a dirgli: “Chau, scusami.”

Lui insisteva perché lo guardassi; penso che volesse, in quel momento, vedermi diventare donna, nonostante i miei 16 anni. Parlammo per un po’, non ricordo cos’altro ci dicemmo. Ma ricordo che decisi di non usare tutti i miei quindici minuti. Mi alzai e feci entrare la mamma.

Il secondo giorno non ci andai. Il terzo sì. Volevo dirgli che l’avrei aspettato a casa. Mi guardò e rispose con un semplice: “Contaci!”
Non ricordo da quanto tempo fosse in quel carcere, ma rammento che in quel periodo gli avevano tolto anche la possibilità di scrivere e lui amava scrivere. Gli avevano tolto anche la possibilità di ricevere altri libri o di giocare a calcio nel cortile. Il resto, di quello che ha vissuto e sopportato e subito lì dentro, non ha mai voluto dirlo. Mai.

Nel viaggio di ritorno con la mamma non parlammo della visita o di mio fratello, ma parlammo di quanto fosse forte la squadra argentina di calcio, era riuscita a vincere contro il Perù 6 a 0. Proprio il risultato che serviva per continuare a giocare il torneo.

“Siamo diritti e umani!” Questo era lo slogan creato dai militari.

Mamma continuò ad andare a trovare Norbert, non ricordo con quale frequenza perché non sempre si poteva, sia per i loro assurdi regolamenti che cambiavano ogni giorno, sia per la lontananza. Io non tornai più.

Ad ogni Pasqua, ad ogni Natale, il “Poder Ejecutivo National” liberava alcuni di questi prigionieri politici. E ogni volta per noi la speranza diventava dolore.

Un giorno, di cui non ricorderò mai la data, stavo chiacchierando col mio amico Coni e vidi uscire l’incaricato del telex della radio di Colon che mi disse: “Gringa puoi venire un attimo?”
“Arrivo fra un po’” risposi
“No, vieni subito.”, ribattè con tono perentorio e senza ammettere repliche.
Mi alzai e corsi, senza pensare a nulla. Corsi e basta. Mi portai nello stanzone del telex, afferrai il foglio del tabulato. “Tutto tuo”, mi disse.
“Non mi va ora, sto parlando con Coni”.
“Invece tocca a te, e fallo con attenzione.”
Mi passò i fogli e rimase a guardare. Presi i fogli, iniziai a scorrerli fino a quando arrivai a una sottolineatura col pennello rosso, era un titolo: liberati dal “Poder Ejecutivo National”. Il mio cuore cominciò ad avvertire qualcosa. Guardai l’incaricato del telex, lui molto serio mi disse: “Continua”. Io continuai. Un paio di metri di carta più in giù un circolo rosso. Dentro quel circolo c’era il nome di mio fratello.
“Mammaaaaaaaaaaa!!!” l’impiegato aveva già aperto la porta. Partii di corsa senza ringraziarlo.

Corsi dalla mamma e da quel giorno, per tre giorni di seguito facemmo i turni sul marciapiede ad aspettarlo. Così feci anche io, fino a quando non lo vidi comparire. Piccolo, piccolo, ma non potevo non riconoscerlo. Era mio fratello, era un sopravvissuto.”