Sono stata piccola bimba laconica, che non vedi mai, e ancora meno senti.
Sono stata bambina con gli occhi bassi vestita di silenzio.
Sono stata adolescente introversa, pieni di sogni e mutismo.
Sono stata giovane donna intrisa d’amore e silenzi.
Il silenzio è stato madre avvolgente che mi ha nutrito e dotata di parola e intelletto. Nel silenzio ho sviluppo me, pensieri e ragionamenti. Nella tiepida assenza del rumore delle mie parole, mi son permessa di crescere come psiche e anima. In quel vuoto di rumori la mia voce ha iniziato la sua crescita fino ad oggi, in cui la vita è il mio palcoscenico e cavalco il proscenio con voce sicura, anche quando tanto sicura non sono.
Oggi sono una donna con voce certa e passo a volte incerto.
Dicono sia piena di utopie, ed io rispondo loro che le utopie son i semi dei sogni, e i sogni son i germogli della realtà.
Ci son quelle volte che non lo riesci a capire se ti stai arenando o stai cercando di spiccare il volo.
Son le volte del silenzio, delle domande che ti poni, delle risposte che ti dai e che poi metti in dubbio.
Mi girano i pianeti e facendolo, producono turbinii di pensieri e emozioni, come tumbleweed nel deserto.
Saturno storto, mi osserva sorridendo. Mi mostra con la mano destra le cesoie, che io so usare troppo bene. Nel mentre tiene nella mano sinistra un affilato bisturi, che so utilizzare con la maestria di chirurgo di fama mondiale. Di sottofondo, l’intenzione costante, di recidere solo rami secchi e mai arti sani, perché a volte può accadere il contrario.
Plutone continua imperterrito a portarmi nella mia personale discesa negli inferi. Talmente a fondo che sfioro il cielo dall’altra parte, confondendomi tra inferno e paradiso. Cerco nel buio i tesori e i semi che sparge. Abituarsi alla propria oscurità non è sempre facile, eppure è l’unico modo per vedersi.
Urano opposto, mi fa costruire per poi distruggere, in una altalena continua dei due passi avanti e uno indietro. Mi fa apparire incoerente, mentre son di una coerenza integerrima, nel mio trasformarmi.
Astrologia, gioco e metafore, mentre sento la necessità di parole dense. Come miele. Esse parlano sottovoce.
Nei suoni di una vita che si riempie di rumori per non percepirsi, non le sento. Nel frastuono dei pensieri del lobo temporale, non comprendo il loro dire. Ecco le volte del silenzio, anche quando sembra che parli.
Mi sembra di parlare una lingua estinta. Come se parlassi latino, mentre tutti gli altri si esprimono attraverso il loro dialetto, qualcuno pure quello stretto.
Immaginatevi, per un attimo questa situazione, la problematicità di relazionarsi con gli altri. Ordinare uno spritz al rabarbaro al bar, diventa un’impresa. e dopo un pò, smetti di provarci. Ti compri il prosecco e il rabarbaro, lo spritz te lo fai da sola.
Non ne imputo la “colpa” agli altri sia ben chiaro, ma stante ciò, in ogni caso il 95% delle situazioni e delle persone mi risulta “particolare”, in questo periodo di vita.
Loki, uno dei miei coinquilini, esterna per me, dove il 95% mi sta (con due opzioni a vostra scelta)
Preferisco il silenzio, il parlar poco o quando parlo tanto, parlar di niente. In questo silenzio mi faccio un sacco di domande. Su di me riesco spesso a rispondermi. Sugli “altri” vado molto meno bene. Di alcuni mi domando il perché, di altri mi rammarico, e tutto è avvolto da una sensazione che lega il tutto. Quella sensazione che non so definire se non usando un termine portoghese: Saudade.
Si son intrisa, inzuppata, gocciolante di saudate in questo periodo. Non triste, non malinconia, è qualcosa di diverso. Wikipedia la cita come “In molti casi una dimensione quasi mistica, come accettazione del passato e fede nel futuro. Spesso tale termine viene utilizzato per esprimere la “malinconia per qualcosa che non si è vissuto” o “nostalgia del futuro“.
Io questa definizione di “nostalgia del futuro” la sento nella carne. Tutte le possibilità viste e mai nate di cui è piena la mia vita, con la consapevolezza che ciò che non è nato non è neppure morto. Quindi è ancora lì, potenzialmente pronto, ad emettere il primo vagito.
Ecco per me, l’accettazione del passato è la fede nel futuro. Guardo avanti, in piena nostalgia del mio futuro, ma come posso parlarne con chi non volge lo sguardo nella mia stessa direzione?
C’è stato un tempo lontano in cui ho pianto moltissimo, non scherzo. Su sette giorni, cinque piangevo. Piangevo nei momenti in cui ero sola. In bagno la mattina in silenzio. In auto la notte, senza contenermi, al rientro di ore folli.
Rubavo spazi vuoti in cui far uscire il mio dolore, senza che nessuno lo vedesse, senza nessuno che mi potesse chiedere: “Che hai? Perché piangi?”. Del mio dolore mi vergognavo. Si lo so, pare assurdo a pensarci adesso, qualcuno mi feriva, ma mi vergognavo io.
Mi vergognavo dal non impedire che accadesse. Non impedivo che questo dolore mi penetrasse come una vite nel legno dolce.
Chi mi guardava esternamente, non notava nulla anzi, più dolore avevo, più ridevo e scherzavo. Sempre pronta a far festa e divertirmi, ma era una copertura. A pensarci bene, i periodi più dolorosi della mia vita, sono stati quelli in cui ho fatto più caciara, più rumore, più confusione. Son stati i periodi che ero sempre in mezzo alla gente ridevo e riempivo la mia vita e l’altrui di “movida”, perché in fondo stavo cercando di coprire il rumore assordante del dolore, il mio.
Poi ho capito e ho cercato il silenzio.
Del resto gli animali feriti non si celano nella loro tana? Nel silenzio e nella solitudine? Peccato che le persone ne abbiano così timore. Io non più, loro mi hanno regalato tantissimo, mi hanno regalato me stessa.
Una breve telefonata di mio padre in cui ho mugugnato qualche “si si” sparso a cazzo e una richiesta “caffè” all’interno di un bar, sono le uniche parole che ho proferito in due giorni con il genere umano.
Sono uscita, sono andata al supermercato, ho fatto la spesa, ho sbirciato bancarelle, risposto a qualche messaggio, osservato il cielo, guardato la gente, ma non ho proferito parola con nessun umano, ne sentito l’esigenza di farlo.
Me ne sono resa conto stamattina, perché le parole rivoltemi, mi infastidivano.
Capita che abbia questa cosa, giornate in cui pur rimanendo ancorata a questo mondo, pur vivendolo, è come se mi mettessi ai bordi, in ascolto. Non degli altri, di me. Gli altri continuo a scrutarli sperando non si avvicinino troppo.
Sono le giornate in cui la maggior parte delle persone mi risulta irritante. Come se le mie orecchie diventassero ipersensibili e percepissi i decibel a 130.
Osservo i binari, i miei. Binari dai quali fotocopio la mia esistenza giorno dopo giorno. Lascio il rumore della gente di sottofondo, il frastuono dei miei pensieri diventa più forte. Ho sparso molti semi, consapevole che molti non nasceranno mai, ne piango la morte.
Da qualche parte, ho la speranza, di vederne spuntare qualcuno. Forse è quello il motivo del mio bisogno di silenzio, cerco di percepire il fruscio della loro nascita.
Questo mio mutar come se da questo dipendesse la capacità del mio respiro. Questo mio guardare a nuovi sentieri appena intravedo la fine di quello davanti.
Costanti della mia vita.
Quando mi son incagliata, arenata in momenti statici e fermi, anche volutamente, ci ha pensato la vita spintonandomi in malo modo per rimettermi nel flusso vitale.
Io così bisognosa di stabilità e sicurezze, son la prima dissidente di me stessa.
Questo non vuol dire che non abbia punti fissi e dinamiche costanti. Ho i miei mattoni, esterni e interni. Io, sè, es, io superiore. Tutta questa robetta qua, quella che confondo sempre e che non capisco mai cosa intendano quando li separano. Io non riesco a separarli. Insieme fanno me, in questo momento, in questa vita, con queste scelte. L’anima poi li avvolge tutti, come uno scialle che tiene al caldo le spalle e il petto, perché in mezzo a tutto c’è il cuore. Il mio.
Solo, ogni tanto, questo bisogno corporeo di solitudine e silenzio, a staccare da un mondo che non sempre mi rappresenta.
Ho dovuto fidarmi delle persone errate per fidarmi di quelle giuste.
Ho dovuto capire il silenzio per apprendere a parlare.
Ho dovuto perdermi per ritrovarmi.
Ho dovuto amare la persona sbagliata per cercare quella giusta.
Ho dovuto dovere per comprendere che non devo niente.
Ho avuto una mente in lotta con il cuore per così tanto tempo.
Quando, si sono abbracciate in un atto d’amore e fusione definitivo, illuminate dal chiarore di una luna che sbirciava da un’alta finestra, io mi son sciolta in mezzo a loro felice.
Quella notte ho compreso la dualità che combacia e unisce.
La mente è fredda, e tale deve esser a equilibrare un cuore che brucia ogni cosa al suo passaggio. In quell’equilibrio viviamo noi umani, in quell’abbraccio impariamo ad amarci, e nel farlo apprendiamo anche l’amore per chi “noi” non è.
Avvolta da quel tepore, ho scoperto che se non ci amiamo noi, neppure gli altri lo faranno.
Mi vesto di silenzio.
Solo qualche parola, qua e là, come un monile a far risaltare l’abito.
E’ la stanchezza del farsi capire, e in questo momento, non ambisco alla fatica di farlo. Del resto chi mi vede, mi scorge anche nella quiete delle parole.
Ambisco a chiacchierate fatte di sguardi. Quelli in cui parli dei secoli che furono, e di quelli che saranno, in una manciata di secondi.
All’ombra di una quercia, a bordo di un sentiero di campagna, ad aspettare.